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UNA CAPPELLA A MARGINE DEL ROSETO

di MARIO GEMIN

Cappella del Centro Appiani a TrevisoEntrando nella cappella, collocata presso l’ingresso principale alla nuova piazza delle Istituzioni a Treviso - cuore dell’intervento di riqualificazione di un’area industriale dismessa - sono riaffiorate alcune sensazioni provate in occasione della visita alla cappella del MIT, presso il Kresge Auditorium, a Cambridge in Massachusetts, progettata da Eero Saarinen: un piccolo edificio di forma cilindrica che sorge isolato all’interno del campus universitario. In quel caso l’architettura diventa pura forma, elemento plastico, astratto, assolutamente non monumentale. I paramenti in mattoni vibrano sotto l’effetto della luce zenitale che si concentra sull’altare ed entra con prepotenza, evocando l’oculo sulla sommità del Pantheon a Roma.

La cappella di Mario Botta non si colloca in un vuoto urbano, come nel caso sopramenzionato, ma all’interno di un vasto complesso commerciale, direzionale e residenziale progettato dall’architetto, di conseguenza non vi è bisogno di un linguaggio caratterizzante per l’involucro, in quanto il manufatto è già incluso in un tessuto ove sono presenti molti elementi che contraddistinguono il lessico bottiano.

Questo piccolo corpo di fabbrica ha una dimensione trascurabile rispetto al contesto, eppure si staglia come gesto iconico primario, una sorta d’objet trouvé che non è posto sull’asse mediano, sottolineato dalla fontana in pietra rosa di Prun collocata sulla terminazione ad emiciclo della piazza, ma sul lato sinistro a margine di un roseto.

La collocazione apparentemente casuale sottende peculiarità che si rivelano man mano che si percorre questa sorta di smisurato agorà dove la dimensione grandiosa è continuamente tenuta sotto controllo con precisi inserti come la vasca d’acqua, le aperture di aerazione dell’autorimessa sottostante, il disegno della pavimentazione e soprattutto il ridimensionamento della porzione pavimentata della piazza per lasciar posto ad un raro esempio di giardino con rose presente in un intervento di riqualificazione urbana, elemento naturale all’interno di un paesaggio artificiale.

La cappella si radica direttamente al suolo, appare quasi come un’escrescenza del terreno, distaccata quasi completamente rispetto alla piazza e al sottostante parcheggio con una sottile cesura che consente di accedere al livello interrato.

L’entrata è protetta da un ampio portico sorretto da un possente pilastro sull’asse, la copertura è volutamente piana e ribassata, suscitando un effetto di compressione dello spazio che segnala il passaggio dalla dimensione urbana al raccoglimento di un ambito sacro; l’unica porta centrale è arretrata come all’interno di un profondo portale strombato che funge da invito ad entrare in questo luogo di fede. Una volta varcata la soglia il tetto sale con inclinazione costante fino al lucernario che convoglia la luce zenitale sulla terminazione curvilinea dell’abside. Vi è una manifesta dicotomia tra il nitore del rivestimento lucido di grassello di calce e il tono scurissimo della pavimentazione di resina di un nero assoluto su cui si stagliano gli arredi liturgici in legno massello di rovere. Manca totalmente qualsiasi elemento di decoro, unica eccezione un cristo crocifisso sospeso a parete e un baffo di luce artificiale che sale da una scanalatura a pavimento e rende vibrante la sinuosità del muro perimetrale. Come per Donato Bramante alle prese con l’immensità della fabbrica di San Pietro e in contemporanea con la scala infinitesimale di San Pietro al Montorio, anche Mario Botta si trova a misurarsi in bilico tra la grandiosità plasmata con disinvoltura nella Catterdale di Evry e lo spazio minuto dell’esempio di Treviso e dimostra una tecnica impeccabile nel modellare lo spazio adattandolo ai passaggi di scala.

In origine la grande corte doveva essere protetta da una copertura di travi reticolari e pannelli fotovoltaici, nella fase di affinamento del progetto quest’elemento unificatore è stato sacrificato ma la piazza, che è il fulcro dell’intervento, doveva comunque avere una caratterizzazione forte, in modo da non apparire solo come copertura di un parcheggio interrato. Da qui è nata l’idea di immettere uno spazio sacro all’interno di un complesso che accoglie istituzioni eminentemente laiche, testimonianza delle aspirazioni più profonde dell’animo umano.

p o e s i e
di Francesco Crosato

emerge e s’innalza…
(Chiesa dei SS. Cirillo e Metodio al Centro Appiani di Treviso)

emerge
come torretta
dal basso

emerge…


tra giganti di pietra
della divergente
quotidianità

…qui delle divertite
passioni per miracolo
tace
la guerra…

e
s’
innalza
senza finestre

muta
la luce


dall’
alto

umile

scende

solo


sulla bianca
parete


il
cristo

 

senza neanche
più
croce
solo


dolore
disossato
divelto

di
luce

 

inondato


nuda
essenza

 

che si
specchia
sul
fondo
nero
atro fondo…

      risplende


            qualche      fungo
di rovere
                          sparso

un altare

   un leggio
             sghembo

 

la semplicità
oggi
cercata
venduta

perduta


anelata

 


il Gesto
(Chiesa dei SS. Cirillo e Metodio al Centro Appiani di Treviso)

è
un
gesto

il

Gesto

che ci rimane
in
mano


illeso


illibato

 


puro

Morte e resurrezione dell’architettura sacra?

Un enigma estetico e storico

di Giuseppe Fornari

Il fenomeno della decadenza dell’arte sacra è sotto gli occhi di tutti e bisognerebbe darne una spiegazione adeguata. Sorprende invece la scarsità del dibattito, a mia conoscenza, sia sul fronte religioso che su quello laico. Per meglio dire una spiegazione “laica” ci sarebbe, quella di carattere illuministico o positivistico (o di qualche altra ideologia degli ultimi secoli), secondo la quale le religioni sono fenomeni destinati a passare in quanto basati su visioni del mondo infondate e illusorie. Logico quindi che non ci siano più fenomeni artistici religiosi paragonabili a quelli di un tempo, quando l’illusione religiosa godeva di piena salute. E in effetti, a misura che nei Paesi occidentali la religione cristiana ha contato sempre di meno nella società, è andata scemando anche l’ispirazione degli artisti che nel corso dei secoli l’avevano adornata e illustrata. Il processo sembra inarrestabile. Nel XVIII secolo l’arte figurativa cristiana è ancora splendida, ma inclina sovente al lezioso; nel XIX, quando la borghesia domina la scena e le società si stanno industrializzando, l’arte cristiana si fa romantica ed eclettica, inclina verso il sentimentale, copia gli stili passati; nel XX, quando le società occidentali si massificano e scoppiano due conflitti mondiali, l’arte cristiana si rende sempre più problematica: a parte alcuni esperimenti di alto livello, la media si abbassa in modo impressionante, fino a degenerare negli ultimi decenni in puro e semplice kitsch religioso. Basta andare in un qualunque centro di pellegrinaggio per venirne sommersi, ma anche una visita ai nostri cimiteri è sufficiente. Diciamolo con franchezza: salvo sempre le sparute eccezioni, predomina il puro orrore. Dunque hanno ragione i detrattori della religione? Analizziamo il problema sotto il profilo che più ci interessa, quello dell’architettura, il più visibile e macroscopico, perché l’architettura fornisce l’involucro e l’ambiente di ogni altra produzione artistica sacra.

Per arrivare alla risposta che ho in mente propongo di partire dalla breve analisi di un esempio appartenente alla tradizione religiosa da cui discende la tradizione cristiana, quella ebraica. Si tratta del primo versetto della “vocazione” di Isaia: “Nell’anno in cui morì il re Ozia, io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato; i lembi del suo manto riempivano il tempio.” (6, 1). Il linguaggio è quello della teofania e il mantello gigantesco di Yahweh sta a significare la sua potenza: Dio è assiso su di un trono altissimo che sovrasta il tempio di Gerusalemme, tanto che il profeta non è in grado di guardarlo. La disposizione spaziale tipica di una sala del trono del Vicino Oriente, dove il monarca stava seduto in posizione sopraelevata e il suddito si prosternava per rendergli omaggio, si amplifica a dismisura, e l’architettura dell’edificio religioso più importante della città ne è per così dire la ricaduta. L’intero tempio altro non è che un’espansione terrena, terrestre, del potere divino. Siamo dunque agli antipodi dell’architettura sacra attuale, che con il suo prevalente cattivo gusto sembra testimoniare piuttosto l’assenza di Dio, quella che i filosofi, sulla scia di Nietzsche, chiamerebbero morte di Dio.

Tuttavia, se approfondiamo l’analisi, possiamo scoprire che proprio l’abissale differenza tra la teofania isaiana, che riempie il tempio col mantello di Dio, e lo squallore chiesastico contemporaneo, con il suo vuoto di Dio, ci offre degli spunti diversi rispetto alla diagnosi descritta all’inizio. Non sappiamo che aspetto avesse il tempio gerosolomitano negli anni di Isaia (la descrizione del tempio di Salomone è leggendaria e non vi è alcuna prova archeologica), ma dai tanti esempi di edifici sacri di quei secoli possiamo evincere con sicurezza che doveva trattarsi di un edificio in cui il regno di Giuda aveva profuso il meglio di quanto sapeva fare artisticamente. Come controprova pensiamo allo splendore dei templi egiziani e mesopotamici che gli scrittori ebraici ben conoscevano, almeno di fama. La mia tesi è che precisamente questa sproporzione rispetto alle macilente estetiche dei nostri giorni ci mostri una risorsa che a noi non è così sconosciuta.

C’è un rapporto diretto tra la presenza strapotente del Dio di Isaia e l’architettura del luogo di culto a lui dedicato, un rapporto che io esprimo filosoficamente con l’idea di mediazione. La mediazione è qualunque figura, istituzione, simbolo che rende leggibile la realtà e anzi la fa esistere in quanto realtà positiva, organizzata, dotata di significato e di ordine, e quindi anche di bellezza. Nell’antichità la funzione delle divinità principali era questa, e a maggior ragione ciò vale per l’ebraismo, in cui il Dio di Israele a un certo punto viene proclamato l’unico vero Dio, creatore assoluto del cielo e della terra. Nell’ebraismo e nel cristianesimo Dio è diventato il mediatore unico dell’universo e dell’uomo, e tutto ciò che si diceva e faceva in suo onore doveva raggiungere i gradi più alti dell’armonia e della bellezza possibile all’uomo. Anche la bellezza artistica era mediata dal potere di Dio e questo guidava l’ispirazione e la mano degli artisti, conferiva alla loro arte uno slancio proporzionato alla grandiosità di queste premesse teologiche.

Queste osservazioni ci offrono allora una spiegazione più interessante della lettura antireligiosa riportata all’inizio. Se l’arte sacra risulta essere in decadenza, non è per la scomparsa di una mera illusione, si tratta piuttosto del problematizzarsi delle più grandi fonti di significato dell’umanità. Infatti, oggi non sono soltanto le religioni ad avere problemi, ma tutte quelle istituzioni e quei simboli che per millenni hanno fatto da punto di riferimento delle collettività umane. Pensiamo solo a com’è ridotta l’attuale politica, alla sua perdita di potere simbolico e rappresentativo. La spiegazione di tipo positivistico quindi non basta, semplicemente non funziona, perché il fenomeno è molto più generale, e ha coinvolto anche le ideologie che nel XVIII e XIX secolo pensavano di soppiantare una volta per tutte le religioni tradizionali, fino ai sanguinosi tentativi attuati e falliti nel XX.

La riflessione che propongo io è diversa da quelle più prevedibili, e coinvolge da vicino il significato della mediazione religiosa cristiana. Il cristianesimo ha la peculiarità di porre al suo centro la mediazione di un Dio che si fa uccidere dagli uomini nella persona del figlio al fine di poterli salvare, mostrando in Gesù crocifisso il prezzo feroce delle mediazioni umane. La morte di Dio di cui parlava Nietzsche si può ricondurre a tale constatazione. Senonché, questa mediazione crocifissa apre uno spazio religioso e simbolico del tutto particolare, poiché, se da un lato la mediazione cristiana per secoli ha funzionato come le altre, dall’altro lato ha gradatamente introdotto la percezione che la mediazione del Dio cristiano non era imposta da un potere sovrumano, ma si offriva alla libera scelta dell’uomo. Nel cristianesimo è l’uomo a scegliere la mediazione che vuole seguire, e la mediazione d’amore che propone Gesù non può essere scelta diversamente. Non si ama perché si è obbligati.

Ciò apre una prospettiva interessante e assai poco battuta, la prospettiva che da questa disorientante libertà, da questa libertà che di solito si risolve in disorientamento, dipenda il cattivo gusto così diffuso nei luoghi di culto, dovuto al tramonto degli ordinamenti sociali e delle concezioni che un tempo garantivano una percezione estetica voluta dal potere e condivisa dall’intera società. Vi è quindi una sorta di decadenza culturale, ma avremmo torto a lamentarcene come di una catastrofe. Il fatto è che, accanto a questi indiscutibili e massici fenomeni di degrado, si è aperta anche la possibilità, per gli artisti e per i fedeli, di scegliere in qualche misura la propria arte sacra e di ricrearla in nuove forme. Se fossimo in presenza di una legge della storia, allora costruire opere di elevata qualità artistica sarebbe un’opzione non minoritaria, com’è attualmente, ma semplicemente impossibile. Tuttavia non c’è nessuna legge storica a cui sottostare, nessun teorema storicistico. E lo attestano le poche ma preziose opere di architettura sacra contemporanea di grande rigore stilistico e di forte impatto estetico, come nel caso delle chiese e cappelle progettate da Mario Botta. Lo spazio dell’uomo contemporaneo è lo spazio rischioso e non programmabile di chi può scegliere, se lo vuole, la sua libertà. E l’arte contemporanea, per quanto in difficoltà e proprio perché in difficoltà, non è da meno. Questo ci dà una responsabilità e ci dà una speranza. L’arte, che sembrava morta e che per tanti aspetti risulta effettivamente morta, è la stessa arte che dalla sua morte può risorgere.