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GIUSEPPE FORNARI
Il percorso di espoliazione di sé d i Simone Weil: una formula di salvezza nel nostro tempo?

AREA APPIANI – 2023

Ingresso libero con offerta responsabile
Si consiglia la prenotazione al n. tel. 3480381294 o all’indirizzo e-mail: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Parrocchia di S. Agnese, Super condominio Appiani, condominio Appiani, Rete dell’Amicizia Appiani.
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a cura di "Associazione Walter Briziarelli 1913"

Sabato 25 marzo - 17:00

Simone Weil: sventura e sacrificio di sé come salvezza
di Giuseppe Fornari

Simone Weil è una figura di assoluto spicco nel pensiero del secolo scorso, anche se bisogna evitare di parlarne in termini intellettualistici, astratti. L’aspetto intellettuale c’è, ed è altamente creativo e originale, ma non ci restituisce da solo il tratto saliente di questa giovane e intrepida donna, che invece riusciamo a riconoscere in una qualità ammirata più a parole che nei fatti, ossia la capacità di comprendere il dolore degli altri. Questa capacità ha profonde radici nella nostra natura, ma non si forma da sé, in modo automatico, giacché richiede l’apporto diretto dell’esperienza, che irrompe dall’esterno e fa di colpo comprendere che cosa significhi soffrire. Può trattarsi di una scoperta, di una percezione improvvisa della sofferenza altrui, ma più spesso si tratta dell’applicare agli altri ciò che noi per primi abbiamo provato.

Ebbene, Simone Weil è la pensatrice che non si è limitata a rammentarci la centralità del dolore, ma che ha indelebilmente collegato a tale esperienza la conoscenza più vera. Tuttavia, stiamo forse parlando del dolore in generale, col rischio di cadere in una visione doloristica dell’esistenza o in qualche forma di masochistico compiacimento? Per una mentalità come la nostra, che normalmente idolatra il piacere e tutto ciò che ce lo può procurare, il passaggio risulta particolarmente ostico, e la Weil lo affronta come fanno i pensatori più grandi, ossia partendo dalla cima, dal momento apicale di un fenomeno o di un problema, con la precisazione peraltro che il momento apicale di cui ci parla la Weil non è una cima, è piuttosto un abisso, l’abisso non misurabile della sventura (malheur).Simone Weil

La sventura è la manifestazione più penetrante e segreta del dolore umano, e non coincide affatto col dolore come viene comunemente inteso. È il dolore innanzi tutto spirituale, consistente nel vedersi privati di quelle che per gli esseri umani sono le ragioni essenziali di vita: l’amore, la dignità, la libertà. La sventura è un precipitare irreversibile nella scala dell’esistenza, è il cadere in un pozzo da cui nulla e nessuno ci può tirar fuori, è un degrado che non conosce riscatto. La componente fisica ne è parte essenziale, ma non perché la sofferenza fisica ne sia necessariamente la causa. Esistono uomini che vanno incontro al dolore e alla morte senza cadere nella sventura poiché accettano questo destino in nome di una causa più alta. E viceversa ci sono esseri umani che in apparenza hanno tutto, che vivono in una condizione superficialmente invidiabile, ma che sono schiantati dalla sventura, tanto da distruggere se stessi, fino a uccidersi, pur di trovare una via di fuga. E ci sono anche coloro che restano impietriti dalla sventura, che perdono ogni capacità di reagire, che si riducono ad essere morti pur restando ancora vivi, senza nulla che esteriormente faccia capire l’inferno in cui sono precipitati. La sofferenza fisica in una maniera o nell’altra c’è sempre, ma come conseguenza o fattore concomitante di un’infelicità che distrugge dall’interno ogni ragione di vivere. L’altro fattore che è sempre direttamente o indirettamente presente è quello sociale. La sventura nasce da qualche situazione di incomprensione e di isolamento che si risolve in tradimento e abbandono, e la derelizione in cui cade lo sventurato alimenta e rafforza il suo isolamento poiché gli uomini da nulla fuggono come dalla sventura. Chi la subisce si presenta alla società come un appestato o un lebbroso da cui stare alla larga. Lo sventurato è l’incarnazione di tutto ciò che inconfessatamente spaventa, è il negativo che tutti sentono incombere sulle loro vite e che devono a ogni costo allontanare, esorcizzare.

Ma allora, come si può avvertire, capire chi è colpito dalla sventura? La cosa accade, anche se è eccezionale, ma per Simone Weil questo è molto di più di un’eccezione. È un miracolo, un avvenimento segretamente mistico, una luce proveniente da Dio. È Dio stesso come luce, presente nelle tenebre che di per se stesse lo negano. L’annuncio del Regno di Dio portato da Cristo consiste nel riconoscerlo in tutti coloro che sono colpiti dalla sventura. Dio regna laddove fuggono gli uomini, e per trovarlo bisogna andare nei luoghi da cui gli uomini fuggono. Questo è il segreto del pensiero e della vita di Simone Weil, una vita e un pensiero sistematicamente protesi alla ricerca di Dio in un’epoca che ne vedeva sistematicamente la negazione, e che lei ha attraversato al pari di una meteora, splendendo in cielo mentre consumava se stessa. Non diversa è l’epoca in cui stiamo vivendo, ricchissima di sventure, e per questo potenzialmente ricchissima di invisibili segni del Regno.

Quale la strada che la Weil ha seguito per rendere questi segni visibili e riconoscibili tramite la sua testimonianza? Una sola, quella della Purezza. Naturalmente è facile equivocare questa nozione in senso moralistico, quando il significato da darle è ben diversamente profondo. È la purezza delle intenzioni e della conoscenza, che sola rende liberi e capaci di osservare gli altri e noi stessi. Non è una purità già ottenuta, un ottemperare a restrizioni e divieti. È invece l’aprirsi alla realtà e il sentirsene sovrastati, in modo che ci raggiunga il dolore degli altri, e quindi l’amore proveniente da Dio. Per questo Simone Weil, passando attraverso le sue personali sventure, ha rinunciato a se stessa, al suo successo in termini sociali e mondani, alla sua stessa femminilità, per mettersi al servizio del Divino nel mondo e nell’uomo, diventando una grande mistica in grado di parlare al mondo strano e dilacerato nel quale viviamo. Chi di noi è disposto ad ascoltarla?

SIMONE WEIL

L’amore di Dio e la sventura, in: “Attesa di Dio”. Rusconi, 1984, p.97-99

L'infinità dello spazio e del tempo ci separa da Dio. Come potremmo cercarlo? Come potremmo andare verso di lui? Anche se si camminasse per secoli e secoli, non si farebbe altro che girare intorno alla terra. Anche in aereo. Non siamo in grado di muoverci verticalmente. Non possiamo fare neppure un passo verso il cielo. Dio attraversa l'universo e viene fino a noi. Al di là dello spazio e del tempo infinito, l'amore infinitamente più infinito di Dio viene ad afferrarci. Viene quando è la sua ora. Noi abbiamo facoltà di acconsentire ad accoglierlo o di rifiutare. Se restiamo sordi, egli torna e ritorna ancora, come un mendicante; ma un giorno, come un mendicante, non torna più. Se noi acconsentiamo, Dio depone in noi un piccolo seme e se ne va. Da quel momento, a Dio non resta altro da fare, e a noi nemmeno, se non attendere. Dobbiamo soltanto non rimpiangere il consenso che abbiamo accordato, il sì nuziale. Non è facile come sembra, perché la crescita del seme, in noi, è dolorosa. Inoltre, per il fatto stesso che accettiamo questa crescita, non possiamo fare a meno di distruggere ciò che potrebbe intralciarla, di estirpare le erbe cattive, di recidere la gramigna; purtroppo queste erbacce fanno parte della nostra stessa carne, per cui tali operazioni di giardinaggio sono cruente. Ciò nonostante il seme, tutto sommato, cresce da solo e viene un giorno in cui l'anima appartiene a Dio, un giorno in cui non soltanto acconsente all'amore ma ama veramente, effettivamente. Bisogna allora che essa, a sua volta, attraversi l'universo per giungere sino a Dio. L'anima non ama di un amore creato, come una creatura. Questo suo amore è divino, increato, perché essa è pervasa dall'amore di Dio per Dio. Dio solo è capace di amare Dio. Noi possiamo soltanto acconsentire a rinunciare ai nostri sentimenti per cedere il passo, nella nostra anima, a questo amore. Ecco che cosa significa rinnegare se stessi. Noi siamo creati solo per acconsentire a questo. L'amore divino ha attraversato l'infinità dello spazio e del tempo per venire da Dio fino a noi. Ma come può rifare il percorso in senso inverso quando proviene da una creatura finita? Quando il seme d'amore divino che è stato deposto in noi è cresciuto, è divenuto un albero, come possiamo, noi che lo custodiamo, riportarlo all'origine, rifare in senso inverso il viaggio che Dio ha fatto per giungere fino a noi, attraversare la distanza infinita?

Sembra impossibile, ma un mezzo c'è. Questo mezzo noi lo conosciamo bene.
Sappiamo bene a che cosa somiglia quell'albero che è cresciuto in noi,
quell'albero così bello sul quale si posano gli uccelli del cielo. Noi sappiamo
qual è il più bello di tutti gli alberi. «Nessuna foresta ne possiede uno simile.» E'
qualcosa di ancora più orrido di una forca, l'albero più bello di tutti. È l'albero
di cui Dio ha deposto in noi il seme, senza che noi sapessimo che seme fosse.
Se lo avessimo saputo, non avremmo detto sì al primo momento. È l'albero che
è spuntato in noi e che ormai non può più essere sradicato. Solo il tradimento
può sradicarlo.
Quando si batte un chiodo con il martello, il colpo si trasmette per intero dalla
larga testa del chiodo alla punta, senza che nulla vada perduto, sebbene essa
non sia soltanto una punta. Se il martello e la testa del chiodo fossero
infinitamente grandi, non avverrebbe diversamente. La punta del chiodo
trasmetterebbe quel colpo infinito al punto su cui essa è posata.
L'estrema sventura, che è a un tempo sofferenza fisica, sconforto dell'anima e
degradazione sociale, può essere paragonata al chiodo. La punta viene posata
sul centro stesso dell'anima. La testa del chiodo è la necessità che si stende
sulla totalità dello spazio e del tempo.
La sventura è un miracolo della tecnica divina. È un dispositivo semplice e
ingegnoso che permette a quell'immensa forza cieca, bruta e fredda di
penetrare nell'anima di una creatura finita. La distanza infinita che separa Dio
dalla creatura si raccoglie intera intorno a un punto per trafiggere l'anima al
suo centro.
L'uomo cui accade questa cosa non ha parte alcuna in questa operazione. Egli
si dibatte come una farfalla appuntata viva su un album. Ma può voler insistere
ad amare attraverso l'orrore. Ciò non è impossibile, né incontra ostacoli; si può
quasi dire che non è difficile. Infatti, finché il dolore più grande non è ancora
arrivato a far perdere i sensi, non raggiunge quel punto dell'anima che
permette un buon orientamento.

Vitraux Majorelle des grands bureaux des aciéries de Longwy
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Bisogna soltanto sapere che l'amore è un orientamento e non uno stato
d'animo. Se lo si ignora, si cade nella disperazione al primo contatto con la
sventura.
Chi riesce a mantenere la propria anima orientata verso Dio mentre un chiodo
la trafigge, si trova inchiodato al centro stesso dell'universo. È il vero centro,
che non sta nel mezzo, che è fuori dello spazio e del tempo, che è Dio. Secondo
una dimensione che non appartiene allo spazio, che non è il tempo, che è una
particolare dimensione, questo chiodo ha fatto un foro attraverso la creazione,
attraverso lo spessore dello schermo che separa l'anima da Dio.
Tramite questa miracolosa dimensione, l'anima, senza lasciare il luogo e
l'istante in cui si trova il corpo al quale è avvinta, può attraversare la totalità
dello spazio e del tempo e pervenire alla presenza stessa di Dio.
Essa si trova al punto di intersezione tra la creazione e il creatore, là dove si
intersecano i bracci della croce.
San Paolo pensava forse a cose di questo genere quando diceva: «Siate radicati
nell'amore, per essere capaci di comprendere che cosa significa larghezza,
lunghezza, altezza e profondità, e di conoscere ciò che supera ogni
conoscenza: l'amore di Cristo».

AREA APPIANI – 2023